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Home CRONACA

I can’t breathe, not in my name. Il video dei poliziotti di Minneapolis sulla morte di George Floyd permette nuove analisi

Redazione by Redazione
12 Ottobre 2020
in CRONACA
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I can’t breathe, not in my name. Il video dei poliziotti di Minneapolis sulla morte di George Floyd permette nuove analisi
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Di Leandro Abeille

Non è un argomento facile quello della morte violenta di George Floyd, dopo la visione dei 7 minuti di video in cui lo si vede steso a terra, con più poliziotti sulla sua schiena, di cui uno con la gamba sul collo, soprattutto se non si vuole seguire l’ondata di sdegno mondiale e cercare di capire cosa è davvero è successo.

Bene inteso: Geoge Floyd non avrebbe dovuto morire ma questo non vuol dire nascondere alcuni fatti importanti. Di recente è stato rilasciato il filmato completo dell’arresto di Gerge Floyd (visitato il 27.9.2020 su: https://www.youtube.com/watch?v=NjKjaCvXdf4), registrato dalle bodycam dei poliziotti e gli accadimenti dello sfortunato episodio, sembrano dare una lettura differente rispetto ai primi video diffusi.

Le responsabilità degli agenti operanti verranno decise dal tribunale, ma appare poco probabile, vedendo il video, la motivazione razziale nell’azione dei poliziotti. In più di 30 minuti d’intervento, non si è ascoltata alcuna offesa razzista: un “nigger”, un “monkey”, un “jiggaboo”, un “midnight”, nulla. Non appare per niente plausibile una presunta violenza di stampo razzista, senza alcuna espressione verbale attinente. Dal video non appare nulla che possa far presumere che, un fermato di uguale stazza e comportamento ma dalla pelle bianca, potesse essere trattato in maniera differente.

Relativamente all’intervento, bisogna sottolineare che in almeno due occasioni, George Floyd, pur non essendo in una posizione stressante per il suo apparato respiratorio e cardio-circolatorio, ha pronunciato la – ormai – famosa frase “I don’t breathe” insieme alla meno pubblicizzata “I am gonna die” (sto per morire) o ancora che avesse perso da poco la mamma (morta due anni fa n.d.r.). A questo punto occorre domandarsi quanto, agli occhi dei poliziotti, potesse essere credibile la frase “I don’t breathe” mentre il fermato era a terra, quando era già stata detta – in più occasioni – mentre era in piedi e con ogni possibilità di respirare efficientemente. Evidentemente era poco credibile.

La pratica degli eventi di grande stress emotivo, ci ricorda quanto, le persone sottoposte ad essi, accusino malori inesistenti, pur di impietosire coloro i quali sono responsabili dello stress. È comprensibile che, in caso di forte stress, l’apparato cardiocircolatorio possa subire degli scompensi, è meno probabile che a subire degli scompensi sia l’apparato respiratorio e ancora, quanto questi scompensi siano davvero reali prima che pericolosi, è di difficile valutazione.

I poliziotti si sono trovati di fronte a due necessità quella di assicurare l’arrestato alla giustizia e quella, valutata come meno probabile, di capire se l’arrestato avesse qualche cosa che non andava. C’è da dire e lo si vede chiaramente dal video integrale, che George Floyd, seppure ammanettato, ha resistito efficacemente all’arresto, riuscendo a divincolarsi ed uscire dalla macchina della polizia, nella quale era stato fatto entrare a forza di spinte. A motivare la volontà di non entrare nell’auto della polizia era – a dire di Floyd – un problema di claustrofobia, che però non gli impediva di stare seduto nel suo SUV, prima di essere fermato. Le opzioni dei poliziotti di Minneapolis erano poche: potevano spingerlo di nuovo nella macchina da cui già una volta era riuscito a uscire, potevano fiaccare la sua resistenza a forza di manganellate o taser, hanno deciso di metterlo prono e contenerlo con il loro peso, forse in attesa che si calmasse e docilmente si facesse portare in cella. Hanno scelto l’opzione peggiore che poi si è rilevata fatale. La scelta fatta è stata ancor più grave perché la morte di George Floyd ha provocato, in tutti gli Stati Uniti, le proteste violente successive, che hanno portato altri morti. Senza contare che, le vite distrutte non sono state solo quelle di Floyd e dei suoi famigliari ma anche quelle dei poliziotti stessi, incolpati della più infamante delle accuse: l’omicidio con l’aggravante del razzismo.

Il processo (per omicidio non volontario) che si aprirà nel 2021, verterà sulla resistenza e le bugie dette da Floyd, sul presunto razzismo degli agenti e sulle autopsie: la prima del Hennepin County Medical Examiner’s Office che evidenzia la morte come provocata da un arresto cardiaco sopraggiunto a causa contenimento effettuato dalla polizia, su una persona che aveva assunto Fentanyl e Metanfetamina (trovate anche tracce di THC) e positivo al Covid19; la seconda, disposta dalla famiglia, che individua nell’asfissia la morte di Floyd. Sembrano simili ma fanno la differenza tra l’assoluzione e 40 anni di carcere.

Ben prima del risultato del processo e sulla verità giudiziarie della morte di George Floyd, pesano, come un macigno, sulla società americana, le proteste guidate dal movimento dei Black Lives Matter, che si sono susseguite ed hanno portato a milioni di dollari di danni, tra distruzioni e saccheggi, perdite umane (tra le vendette dei BLM e i sostenitori dei movimenti razzisti e tradizionalisti) e un vero aumento della conflittualità su base razziale. Sebbene il 93% delle proteste siano state pacifiche (ACLED 2020), sono morti degli innocenti, alcune persone sono state uccise solo perché bianche, è il caso di Jessica Doty Whitaker, freddata a colpi d’arma da fuoco, solo per aver detto “all lives matter” (e non solo black lives matter). Si devono, inoltre, considerare, nel capire quanto la morte di George Floyd sia stata strumentalizzata (in tutto il mondo), anche l’opera degli odiatori seriali di ogni colore e delle decine di influencer, pseudo intellettuali, digiuni della realtà della strada e delle difficoltà degli operatori delle forze dell’ordine che, ogni giorno, devono confrontarsi con una pletora di persone che vanno dai normali cittadini sottoposti a controllo, a ex rapinatori bugiardi che non hanno scrupoli quando puntano armi contro donne incinte.

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